Le sirene di Xi per le imprese italiane


La Cina prova a rafforzare i rapporti commerciali in Europa e in Italia puntando ai dazi di Trump, ma il governo Meloni è molto attento agli umori della Casa Bianca. Il caso Pirelli, che ha come primo azionista il colosso di Pechino Sinochem, è l’esempio dell’equilibrio su cui dovranno muoversi le società. Se vogliono fare affari

Un ministro assai loquace, e lo sappiamo, non è semplice distinguere però fa nulla, s’è gonfiato il petto col “Made in Italy” per dire di puntare agli amici asiatici, cinesi in particolare, di stare calmi, niente panico, i prodotti italiani sono i migliori, li vogliono tutti, li pagano tutti, anche di più. Come se i prodotti italiani fossero bevande, soprattutto alcoliche, e alimentari, specialmente parmigiano. Corbellerie. (Oppure scegliete l’aggettivo che più vi aggrada). Ci mettiamo un titolo: la Cina torna in Italia. E un sommario: perché se n’era andata? La bilancia commerciale pende ancora, e sempre più forte, dal lato del governo di Pechino: lo scorso anno 15,3 miliardi di euro in esportazioni e 49,5 miliardi in importazioni. E no, la relazione Italia-Cina nel vortice dazi e follie di Donald Trump non dipende né dal prosecco né dal formaggio. Un caso di scuola è quello di Pirelli. La multinazionale degli pneumatici con 20 fabbriche in 14 nazioni, per farla breve, è impegnata a proteggere gli affari in Cina e in Usa senza far torto ai cinesi e agli americani. Da vent’anni Pirelli ha 3 stabilimenti e 5.000 dipendenti in Cina e la compagnia chimica statale Sinochem è il suo primo azionista, ma in Usa ha il mercato di alta gamma (sensori intelligenti) più prezioso e circa un quinto del fatturato (1,5 miliardi).

 

Le regole di Washington sono chiare e Trump non è un tipo da deroghe, semmai da ritorsioni, dunque Pirelli s’è data un mese di tempo, fissando il Consiglio di amministrazione a fine aprile, con la speranza di convincere i cinesi a ridurre la quota (o il controllo) dentro Pirelli. In un mondo manicheo senza sfumature, forse somigliante a quel mondo banalizzato dal ministro assai loquace, non ci sarebbe neanche il dubbio: o di qua o di là. E invece il vicepresidente esecutivo Marco Tronchetti Provera, che peraltro organizzò l’ingresso cinese in Pirelli e adesso ne pretende una parziale e pure ordinata uscita, non pare scoraggiato. Perché cinesi e americani hanno bisogno di una soluzione. Ciascuno per i propri interessi. Non è una coincidenza che per risolvere il caso di scuola Pirelli si sia mosso Paolo Zampolli, l’inviato speciale di Trump: Zampolli ha portato il tema Pirelli, affrontato a cena a Milano con l’amico di famiglia Tronchetti, dinanzi ai presidenti di Camera e Senato e ai ministri Matteo Salvini e Adolfo Urso. Fra tanti aspetti coreografici di Zampolli – le valigie, le battute, la satira dei giornali di compagnia – Pirelli era la vera missione del suo viaggio a febbraio in Italia. Tronchetti è pronto ad annacquare la presenza cinese in Pirelli e a soddisfare la propaganda trumpiana con un paio di annunci: un miliardo di dollari di investimenti e un migliaio di operai assunti nel sito di Rome in Georgia per aumentare la produzione negli Stati Uniti. Oggi il mercato americano di Pirelli è foraggiato da un 50 per cento di provenienza messicana, domani sarà più americano e meno messicano. What else, president Trump?

 

Gli azionisti di Sinochem non possono eseguire supinamente le indicazioni di Tronchetti, fantascienza, ma non possono neppure cagionare danni a un’azienda che arruola manodopera cinese e porta profitti in denaro e in sviluppo. Siccome Tronchetti batte tutte le strade per trovarne una giusta, a Roma la scorsa settimana è intervenuto, in un tripudio di bandiere rosse mescolate ai tricolori, a un seminario organizzato da Giancarlo Elia Valori, uno degli ultimi potenti che proviene dal secolo scorso e ha saputo ben integrarsi in questo secolo allargando la sua sfera di influenza laggiù a Pechino. Le opportunità cinesi, il programma. Tronchetti era perfettamente a suo agio e ha citato a proposito di Pechino un articolo celebrativo su Pirelli del “Giornale del Popolo”. Il messaggio: il regime di Xi Jinping ci vuole ancora bene. Non se ne faccia una questione privata, spiegano autorevoli fonti che conoscono a fondo Pechino, la Cina è inflessibile con Washington e flessibile con storici alleati e quasi ex alleati di Washington perché questo è il momento di mostrare di essere affidabili, ragionevoli, maturi. L’Europa ha fame di elettronica/batterie/minerali per i trasporti e l’energia, la Cina di componenti di pregio. Ci si aspettava il collasso dei rapporti Italia-Cina dopo che il governo di Giorgia Meloni (2023) ha abbandonato l’accordo per la nuova Via della Seta sottoscritto dal governo gialloverde di Giuseppe Conte (2019). Il commercio ne ha patito abbastanza, ma la diplomazia di Stato ha alleviato i sintomi del malcontento. Nel giro di un anno, il governo di Pechino ha accolto: il presidente della Repubblica, la presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, il viceministro degli Esteri, il ministro per le Imprese, il presidente del Senato e, in estate, farà tappa Salvini. A giugno è atteso a Roma il primo ministro Li Qiang, mentre si è appena concluso un giro d’Italia tra Milano e Roma di una delegazione di funzionari e imprenditori guidati da Ren Hongbin, il capo dell’istituto per il commercio estero cinese.

 

Proprio per orientarsi nel settore, l’Espresso si è rivolto a Lorenzo Riccardi, presidente della Camera di Commercio italiana in Cina. Riccardi premette: «Nonostante il contesto geopolitico, in un nostro sondaggio emerge che la maggioranza delle aziende italiane con investimenti in Cina ritiene questo mercato una priorità nelle strategie di gruppo. Non ci dimentichiamo che 600 milioni di cinesi appartengono alla classe media».

 

Il contraccolpo dopo la rottura per la Via della Seta c’è stato, l’Italia ha perso il 20 per cento in esportazioni, ma per Riccardi alle dogane il calcolo è diverso guardando ai vicini europei: «In Cina i prodotti italiani, nonostante si registri un delta negativo nel 2024-2023 (-3,2 per cento), hanno un andamento migliore della media europea (-4.4 per cento) e dei singoli Paesi, tra cui Francia (-5,9 per cento) e Germania (-10,7 per cento). La Via della Seta è stata sostituita dal piano d’azione triennale che verte sulla collaborazione nei settori del commercio, sanità, sostenibilità, finanza, cultura e innovazione ed è parte del rinnovo del partenariato strategico globale tra Italia e Cina».

 

Un ulteriore segnale è arrivato con la ratifica di un patto fiscale che fu firmato a Villa Madama tra il presidente italiano Conte e Xi Jinping contestualmente al memorandum per la Via della Seta. Riccardi suggerisce alle imprese italiane di spingere, oltre il cibo, la meccanica che vale 3,5 miliardi di euro, l’abbigliamento che vale 4 miliardi (un quarto delle esportazioni): «E non dimentichiamo le tecnologie verdi, fondamentali per il futuro». Qualcuno riferisca al ministro assai loquace: più del buon vino, conta dove si smaltisce la bottiglia.



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