Unità di Crisi del Mimit: le nuove linee di intervento raccontate da Mattia Losego


«Stiamo lavorando anche su nuove linee di intervento: Transizione 5.0, incentivi alla domanda in settori strategici, e fondi dedicati alla reindustrializzazione». Parole di Mattia Losego, coordinatore dell’Unità di Crisi Industriale del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, l’ufficio che – tra tavoli, trattative e vertenze – gestisce oggi alcune tra le fratture più profonde del sistema produttivo nazionale. Sono dinamiche che Losego conosce bene: prima di approdare al ministero guidato da Adolfo Urso, aveva svolto lo stesso ruolo per la Regione Veneto, a livello territoriale, quando l’assessore al Lavoro era Elena Donazzan. Ora, sul suo tavolo ci sono pratiche di peso come Acciaierie d’Italia, BeKo, Berco, Jsw Steel Italy Piombino, Speedline, Cmc, Piaggio Aero Industries, Sideralloys Italia (ex Alcoa) e tante altre. Ecco, le parole di Losego sono importanti perché non sono solo dichiarazioni tecniche, ma costituiscono l’indizio di un cambiamento di orizzonte: l’Unità di Crisi non si limita più al ruolo di “pronto soccorso” dell’industria italiana, ma comincia ad assumere i contorni di un laboratorio di politica industriale attiva, capace di intervenire prima del collasso e con una visione più ampia della semplice “gestione dell’emergenza”. Perché?

Perché la differenza è tutta lì, tra i vecchi strumenti e nuove traiettorie di cui parla Losego. I primi – come il Fondo di Salvaguardia, i Contratti di Sviluppo o la Legge 181/89 – nascevano con l’obiettivo di contenere l’urto delle crisi industriali, accompagnare le imprese in difficoltà, cercare di garantire un minimo di continuità produttiva e occupazionale. Il Fondo di Salvaguardia, ad esempio, consente allo Stato – tramite Invitalia – di entrare temporaneamente nel capitale di un’azienda in crisi, per evitare chiusure immediate e permettere il tempo necessario a trovare un investitore o un progetto di rilancio. I Contratti di Sviluppo, invece, finanziano grandi progetti industriali, anche come leva per attrarre nuovi investitori nelle aree colpite da dismissioni. La Legge 181/89, infine, offre agevolazioni alle imprese che investono in zone colpite da crisi industriale complessa, spesso legate alla riconversione post-industriale. Tutti strumenti validi, certo. Ma con una logica prevalentemente reattiva: si interviene quando la crisi è conclamata, con l’intento di limitarne gli effetti più duri – soprattutto in termini occupazionali.

Le nuove linee di intervento di cui oggi parla Losego segnano invece un cambio di paradigma. Parlare di Transizione 5.0, incentivi alla domanda per settori strategici, o fondi mirati alla reindustrializzazione significa immaginare un’azione pubblica capace non solo di gestire la caduta, ma di guidare la trasformazione. Significa non aspettare che un’azienda chiuda per cercare un sostituto, ma creare prima le condizioni affinché quella chiusura non avvenga, oppure che si trasformi in un passaggio, non in un trauma. È un modo nuovo di pensare la politica industriale: non più solo difensiva, ma attiva; non più solo assistenziale, ma strategica. In altre parole: non più solo difesa del presente, ma progettazione del futuro.

L’evoluzione temporale dei tavoli di crisi dal 2023 al 2024: mostra una crescita costante del numero di vertenze attive, segno di una pressione crescente sul sistema industriale.

D: Acciaierie d’Italia, BeKo, Berco, e altre – sono crisi industriali all’apparenza molto diverse le une dalle altre. Ecco, dal vostro osservatorio qualificato, si riesce a scorgere un fil rouge, un elemento unificante? Quanto le attuali contingenze della generale crisi industriale europea stanno incidendo sull’emergere di casi specifici?

Mattia Losego, coordinatore dell’Unità di Crisi Industriale del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

R: È vero, a prima vista sembrano crisi molto diverse tra loro. Parliamo di aziende che operano in settori differenti – dalla siderurgia, all’elettrodomestico, alla meccanica – con modelli di business, proprietà e mercati di riferimento eterogenei. Tuttavia, se osserviamo questi casi da un punto di vista più sistemico, emerge chiaramente un filo rosso: quello della trasformazione profonda in atto nell’industria europea, un cambiamento che colpisce la struttura stessa del nostro apparato produttivo. La crisi della Germania, nostro principale partner commerciale, ha un impatto diretto sulla domanda estera di componentistica e semilavorati italiani. Inoltre, l’industria automotive – storicamente uno dei pilastri della nostra manifattura – sta vivendo una riconfigurazione globale, con la Cina e i Paesi emergenti che conquistano quote di mercato significative, sia nell’elettrico che nei motori tradizionali. L’Italia, che oltre ai veicoli produce una parte importante della componentistica, si trova esposta in modo particolare a queste dinamiche. A questo si somma la perdita di competitività di alcuni nostri settori storici, aggravata dal caro energia, da normative ambientali e industriali che non trovano equivalenti in molti Paesi extra-UE, e dalla difficoltà di attrarre investimenti. Tuttavia, ogni crisi ha una sua specificità: c’è chi è vittima di disimpegni improvvisi da parte della proprietà, chi soffre per scelte industriali non lungimiranti, e chi semplicemente non riesce più a reggere la competizione in un mercato globalizzato. Il filo rosso, insomma, esiste, ma va intrecciato con tante storie aziendali differenti.

D: Quali sono i criteri specifici con cui l’Unità di Crisi decide di aprire un tavolo ministeriale per una determinata azienda? Esistono soglie quantitative (numero di lavoratori coinvolti, livello strategico dell’azienda, impatto territoriale) o è una valutazione caso per caso?

R: La nostra Unità interviene su richiesta esplicita delle parti coinvolte – in primis le organizzazioni sindacali e le imprese, ma spesso anche le amministrazioni locali. In alcuni casi, invece, è il Ministero stesso a valutare l’opportunità di attivare un tavolo, in base alla strategicità del settore o al peso occupazionale dell’azienda. In generale, le imprese che gestiamo più direttamente sono quelle di dimensioni medio-grandi, ovvero con almeno 250 dipendenti. Ma il numero in sé non è l’unico criterio. Valutiamo anche l’impatto territoriale, la rilevanza dell’azienda nella filiera, e la possibilità che il caso abbia effetti a catena. È un approccio che combina elementi quantitativi e qualitativi, perché dietro ogni crisi ci sono persone, famiglie e territori, e non possiamo permetterci di guardare solo i numeri.

Numero di tavoli di crisi aperti per settore: mostra la concentrazione delle vertenze nei comparti più colpiti.

D: Quali sono i settori industriali attualmente più colpiti dalle crisi gestite dall’Unità, in termini sia di numero di tavoli aperti sia di lavoratori coinvolti? Quali fattori specifici contribuiscono maggiormente alle difficoltà in questi settori?

Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy.

R: I comparti che stiamo seguendo con maggiore attenzione sono quelli già citati: automotive, siderurgia, elettrodomestico, telecomunicazioni. Il comune denominatore, in molti di questi casi, è l’esposizione a dinamiche di mercato globali molto complesse. Ci sono fattori strutturali che rendono il nostro sistema industriale più fragile rispetto ad altri: il costo dell’energia, che in Italia è sensibilmente più alto rispetto ad altri Paesi europei; il peso delle normative ambientali, spesso più stringenti rispetto a quelle vigenti in Paesi extra-UE; e un contesto infrastrutturale e burocratico che non sempre agevola la competitività. Inoltre, manca in certi casi un coordinamento di filiera tra grandi e piccole imprese, cosa che altrove funziona meglio. Tutto questo crea un terreno fertile per le crisi.

D: Quali poteri concreti ha l’Unità di Crisi?

R: Il nostro potere più grande è la capacità di mettere attorno a un tavolo tutte le parti coinvolte e costruire un confronto vero, costruttivo. Questo non è poco, soprattutto in momenti di forte tensione. Cerchiamo di creare le condizioni per soluzioni condivise, accompagnando le imprese e i lavoratori in un percorso di transizione che sia sostenibile sul piano economico e sociale. Accanto a questo, abbiamo la possibilità di orientare e favorire l’accesso agli strumenti disponibili: ammortizzatori sociali, finanziamenti per l’innovazione, fondi per il rilancio industriale, agevolazioni per nuovi investimenti. Oggi possiamo agire con più efficacia anche grazie a una visione industriale nazionale più coesa, che sta cercando di mettere al centro la reindustrializzazione come obiettivo concreto.

D: Quali sono, secondo Lei, i casi industriali più complessi che l’Unità di Crisi sta attualmente affrontando e quali sono i principali fattori che ne determinano la complessità? Quali variabili rendono difficile trovare soluzioni concrete?

R: La complessità non deriva solo dai numeri in gioco, ma anche – e spesso soprattutto – dall’atteggiamento delle parti. I casi più difficili sono quelli in cui manca la volontà di dialogare. Quando le imprese scelgono di procedere con licenziamenti collettivi in modo unilaterale, senza cercare alternative o percorsi negoziali, la crisi si irrigidisce e diventa molto difficile da governare. Lo stesso accade quando i lavoratori o i loro rappresentanti si irrigidiscono su posizioni ideologiche, magari rifiutando qualsiasi ipotesi di riorganizzazione o riqualificazione. Le soluzioni nascono solo dal confronto vero, quello in cui ci si ascolta reciprocamente e si costruisce una visione comune, anche partendo da posizioni distanti.

Lavoratori coinvolti nelle crisi per settore: evidenzia l’impatto occupazionale nei diversi ambiti industriali.

D: Quali sono i criteri con cui vengono attivati gli strumenti finanziari a supporto delle imprese in crisi (Fondo di salvaguardia, Contratti di Sviluppo)? Esistono parametri oggettivi per determinarne l’accesso, oppure si valuta caso per caso? Alla luce delle crisi più recenti, ritiene che questi strumenti siano sufficienti o ci sono situazioni in cui si sono rivelati inadeguati?

Jsw Piombino.

R: Gli strumenti oggi disponibili – dal Fondo di Salvaguardia ai Contratti di Sviluppo – sono efficaci, a patto che siano accompagnati da un progetto industriale credibile. La trasparenza nei criteri di accesso è garantita, ma il punto di partenza resta sempre la volontà dell’impresa di rilanciarsi. Oltre a questi strumenti “classici”, stiamo lavorando anche su nuove linee di intervento: Transizione 5.0, incentivi alla domanda in settori strategici, e fondi dedicati alla reindustrializzazione. Serve però uno sforzo ulteriore: ad esempio, creare strumenti ad hoc per i casi di dismissione totale, con l’obiettivo non solo di gestire la fase di uscita, ma anche di preparare il terreno per un nuovo insediamento produttivo.

D: Nei tavoli di crisi con aziende e sindacati, quali sono le strategie negoziali più efficaci per ottenere concessioni dalle multinazionali e per convincerle a mantenere la produzione in Italia?

R: Ogni negoziazione è diversa, ma posso dire che le multinazionali, pur nel loro pragmatismo, sono spesso più abituate a confrontarsi con istituzioni e tavoli di crisi. Questo le rende, paradossalmente, più aperte a soluzioni di compromesso, come la cessione di asset, la reindustrializzazione, o il mantenimento di attività strategiche in Italia. La leva negoziale più efficace è sempre la credibilità: quando il governo si presenta come interlocutore serio, con strumenti concreti e una visione di medio termine, anche le multinazionali tendono a ragionare in termini costruttivi.

Confronto strumenti classici (in blu) e nuove linee di intervento (in verde) in base al numero medio stimato di interventi annui. Mostra come le nuove direttrici – pur essendo più recenti – stiano rapidamente guadagnando spazio nel quadro degli strumenti di politica industriale.

D: Nel caso Berco, l’azienda ha avviato licenziamenti senza partecipare al tavolo ministeriale. Quali strumenti ha l’Unità di Crisi per evitare che le aziende eludano il confronto e decidano unilateralmente?

Stabilimento produttivo di Berco. La crisi di Berco si inserisce nel più ampio piano di ristrutturazione di ThyssenKrupp, che prevede 11mila tagli tra posti diretti ed esternalizzati entro il 2030, con l’obiettivo di ridurre del 10% i costi del personale per mantenere la competitività in un mercato dell’acciaio sempre più complesso.

R: Nel caso di Berco, non si è trattato di un disimpegno totale dal confronto. Ci sono stati numerosi incontri anche a livello ministeriale. Tuttavia, la trattativa si è arenata su rigidità negoziali che hanno impedito di raggiungere un accordo. Quando si delegano completamente le trattative alla sede aziendale, senza accompagnare il processo con un percorso condiviso anche sul piano industriale, si rischia che la soluzione più semplice venga percepita come l’unica: il taglio dei posti di lavoro. Il nostro auspicio è che l’azienda riveda la propria posizione e torni a discutere non solo di numeri, ma di strategia, efficienza, investimenti. È da lì che si riparte.

D: Non tutte le aziende possono essere salvate. Nel caso di chiusure inevitabili, qual è il protocollo per cercare nuovi investitori o percorsi di reindustrializzazione? Ci sono settori o aree geografiche in cui è più difficile trovare alternative alla chiusura?

R: In questi casi entra in gioco tutto il ventaglio di strumenti previsto dalla normativa: dalla legge 234/2021, all’Amministrazione straordinaria, fino al Fondo di Salvaguardia che consente la partecipazione pubblica al capitale. Ma gli strumenti, da soli, non bastano. Serve una rete di soggetti – pubblici e privati – che collaborino per individuare nuovi investitori o per reindirizzare le competenze del personale verso altri settori. In alcune aree del Paese, purtroppo, questo è molto più difficile: mancano le infrastrutture, le filiere, il contesto favorevole. Ecco perché la reindustrializzazione deve essere anche una politica di coesione territoriale.

D: Nel caso Beko, l’Unità di Crisi ha respinto il piano industriale della multinazionale e ha fatto leva sulla golden power per cercare di tutelare l’occupazione. Dal vostro punto di vista, quali sono stati gli elementi critici del piano di Beko che ne hanno determinato il rigetto? E quali strumenti concreti l’Unità di Crisi può mettere in campo per garantire che la multinazionale rispetti gli impegni occupazionali e industriali assunti in Italia?

Beko produzione. Immagine presa dal sito beko-group.it. L’Unità di Crisi ha respinto il piano industriale della multinazionale e ha fatto leva sulla golden power per cercare di tutelare l’occupazione.

R: Il piano industriale iniziale di Beko è stato giudicato incompatibile con le condizioni poste dalla golden power, che è stata esercitata dalla Presidenza del Consiglio su proposta del Mimit. Prevedeva chiusure, delocalizzazioni e uno svuotamento sostanziale delle attività italiane. Il rigetto non è avvenuto per ostilità, ma per una precisa volontà di tutelare l’interesse nazionale, in termini di occupazione e capacità produttiva. Oggi il confronto è ancora aperto, e il dialogo prosegue su più tavoli: investimenti, protezione del reddito, nuovi assetti produttivi. Ci sono già molti punti condivisi, ma restano ancora nodi importanti da sciogliere.

D: Quando si applica la golden power?

R: La golden power si applica quando sono in gioco interessi vitali per l’economia nazionale, la sicurezza, le infrastrutture strategiche. È uno strumento eccezionale, riservato a casi specifici, e la sua attivazione è responsabilità della Presidenza del Consiglio. Noi, come Mimit, possiamo segnalarne l’opportunità, ma non decidere in autonomia.

D: Lo stabilimento Bosch di Bari è stato coinvolto in un tavolo di crisi per gestire la transizione dalla produzione di componenti diesel a nuove tecnologie. Considerando che il piano industriale prevede 700 esuberi entro il 2027, quali sono le misure concrete che l’Unità di Crisi sta valutando per garantire la riqualificazione dei lavoratori e la continuità produttiva?

Lo stabilimento Bosch di Bari è stato coinvolto in un tavolo di crisi per gestire la transizione dalla produzione di componenti diesel a nuove tecnologie. Il piano industriale prevede 700 esuberi entro il 2027.

R: Seguiamo con attenzione il caso Bosch, che è emblematico di un’intera fase di transizione industriale. Stiamo lavorando per garantire la continuità degli ammortizzatori sociali, in modo da accompagnare i lavoratori durante la riconversione. La recente notizia di un progetto per il ricondizionamento di pompe e iniettori, che coinvolgerà circa 100 lavoratori, è un primo segnale positivo. Tuttavia, la sfida più grande sarà costruire un futuro stabile, con attività industriali coerenti con le nuove traiettorie tecnologiche del settore.

D: Dato il ruolo strategico dell’acciaio per la manifattura italiana, l’Unità di Crisi ha strumenti per vincolare eventuali nuovi investitori a impegni precisi sul mantenimento della capacità produttiva e sui livelli occupazionali? Quali sono gli scenari possibili se Acciaierie d’Italia non riuscisse a superare questa fase critica?

R: La siderurgia è un asset strategico per il Paese. Non possiamo permetterci di perdere capacità produttiva in questo settore. Per questo, ogni nuovo investitore deve essere vincolato a precisi impegni: continuità produttiva, tutela occupazionale, investimenti ambientali. Nel caso di Acciaierie d’Italia, così come per Piombino o AST, sono in corso tavoli ad alto livello, con il coinvolgimento diretto del Ministro e della Presidenza del Consiglio. Le sfide sono molteplici: costi energetici, concorrenza sleale, regolazione del mercato del rottame. Serve un approccio sistemico.

D: Lei coordina l’Unità di crisi da 20 mesi. Può fare un bilancio dell’attività? Inoltre, aveva un incarico analogo in Regione Veneto: c’è qualcosa di quell’esperienza che ha portato al ministero?

R: L’esperienza che ho maturato in Veneto è stata fondamentale. Lì abbiamo costruito un modello regionale di gestione delle crisi aziendali ispirato a quello nazionale, grazie anche alla collaborazione con Giampiero Castano (per anni responsabile della stessa Unità al Ministero). Oggi ho il privilegio di guidare l’Unità ministeriale, continuando quel percorso con uno sguardo più ampio. Il mio obiettivo è rafforzare il principio secondo cui la reindustrializzazione non è una misura emergenziale, ma una leva fondamentale della politica industriale. In questi 20 mesi abbiamo affrontato casi complessi, ma abbiamo anche ottenuto risultati significativi. E credo che stiamo seminando per una gestione più moderna e strategica delle crisi industriali del Paese.

(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 28 marzo 2025)



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